[unomada-info] Toni Negri: reseña del volumen «I confini della libertà» [italiano]

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Sab Feb 5 21:39:09 CET 2005


Il manifesto - 04 Febbraio 2005
I movimenti migratori del desiderio
La mobile e ribelle forza lavoro dei migranti al centro di una raccolta 
di saggi, «I confini della libertà», curata da Sandro Mezzadra per 
DeriveApprodi. Una condizione che tocca e sfida i processi politici e 
costituzionali della cittadinanza e della democrazia, registrandone la crisi
TONI NEGRI
Sul terreno dello sviluppo di pensiero critico (di origine operaista) ci 
sono state alcune opere fondamentali che ogni volta hanno aperto piste 
di ricerca capaci di fruttificare in tutte le stagioni. Fra gli altri, 
Operai e capitale di Mario Tronti, L'altro movimento operaio di K.H. 
Roth, Il salariato imbrigliato di Yann M. Boutang e, sullo stesso 
binario, Diritto di fuga di Sandro Mezzadra. Sono testi che hanno creato 
una koinè critica nella costruzione di prospettive politiche che 
andavano oltre il movimento operaio, così come oltre l'iniziale vulgata 
dell'operaismo, verso una politica delle moltitudini. I confini della 
libertà. Per un'analisi politica delle migrazioni contemporanee a cura 
di Sandro Mezzadra (DeriveApprodi) verifica questa koinè sul tema delle 
migrazioni e del «salariato imbrigliato». È un libro che raccoglie 
dodici saggi che allargano l'analisi sugli aspetti politici 
internazionali e sulle trafile interne (ontologiche, passionali) della 
migrazione, sempre sulla base di un motivo di fondo: l'autonomia dei 
movimenti della forza lavoro migrante (e naturalmente di quella 
stanziale). La mia presentazione di questo volume non sarà dunque una 
recensione: questo libro non merita di essere appiattito nel lavoro del 
recensore, va piuttosto letto, in primo luogo, discusso all'interno dei 
movimenti e partecipato/verificato in quanto strumento immediato di 
analisi politica delle migrazioni e pratica di lotta. Questo mio 
intervento vuol solo insistere sul tema centrale, sostanziale, che nel 
libro è trattato: non solo l'autonomia ma la costitutività dei movimenti 
migratori, la loro inerenza al movimento della moltitudine, la loro 
connessione con la nuova struttura del lavoro, quindi con la sua nuova 
organizzazione/divisione internazionale. Le migrazioni dunque nascono su 
una radice autonoma. Non sono semplicemente il risultato della povertà 
ma il prodotto del desiderio, non sono promosse semplicemente dalla 
miseria ma dal bisogno di libertà. La sociologia delle migrazioni ha 
spesso (quasi sempre) interpretato il punto di vista dei governi 
capitalistici, è stata un complemento e un prolungamento delle teorie 
coloniali, ha basato il valore di riferimento sull'operazione che gli 
stati nazione compivano in maniera perfetta: l'integrazione. Dal melting 
pot Usa all'integrazione di sangue del modello brasiliano, così è andato 
l'integrazionismo: dietro c'era tuttavia un'autonomia dei movimenti 
migratori che poteva solo essere gerarchizzata, piegata alla disciplina 
- quando invece essa si riproponeva come resistenza che investiva le 
forme dell'accoglimento negli Usa o che reinventava il meticciato 
brasiliano, un esodo ininterrotto. Sono processi ontologici quelli 
costruiti dall'autonomia delle migrazioni («intendendo con questa 
formula denotare l'irriducibilità dei movimenti migratori contemporanei 
all'offerta e alla domanda che governano l'organizzazione internazionale 
del lavoro, nonché l'eccedenza delle pratiche e delle domande soggettive 
che in essi si esprimono rispetto alle cause oggettive che li 
determinano») - processi ontologici irrecuperabili a ogni schema 
dell'economia classica, del governo globale, e infine anche dell'astuta 
governance attuale.

Dicevamo che la sociologia ufficiale, nelle sue varie accezioni e 
metodologie, interpreta regole di governo della migrazione in termini di 
integrazione sociale. Di contro, quando il concetto di lavoro produttivo 
e di forza lavoro si modifica, diventa compito teorico fondamentale, 
nella politica delle moltitudini, quello di far saltare ogni progetto di 
conoscenza funzionale e di ogni pratica di governo disciplinare della 
migrazione. Il fatto è che la migrazione (la forza lavoro che emigra e 
si sposta nel mondo con resistenza e lotte) è tutto tranne che qualcosa 
che possa essere facilmente integrato. È forza lavoro mobile, mobile in 
termini parossistici. Sicché qui si rivela un primo paradosso: la sua 
eccedenza e la sua forza assomigliano più alla forza lavoro cognitiva 
(cioè del più alto prodotto della rivoluzione postfordista) che a tutte 
le altre forme di lavoro subordinato. Qui nasce un primo problema 
teorico (che attraversa quello politico) ed è quello della 
ricomposizione di questi strati di proletariato.

Ma insistiamo sul presupposto: perché mai la forza lavoro migrante 
somiglia a quella portatrice di un'attività cognitiva? Perché mai il 
migrante dovrebbe far parte del General Intellect che costituisce il 
centro produttivo e la tendenza di un sistema ormai post-moderno? Lavoro 
cognitivo e lavoro migrante sono facce diverse (ma convergenti) di una 
stessa mobilità della forza lavoro: temporale nel primo caso, spaziale 
nel secondo. In ogni situazione, è una mobilità che investe la vita: 
lavoro materialissimo (ma immateriale) è quello della moltitudine che 
nella mobilità ricompone cognitariato e migrazioni, lavoro biopolitico è 
quello che queste frazioni della moltitudine costruiscono.

Vale qui la pena di fare una piccola parentesi per sottolineare quanto 
sia il lavoro del cognitariato sia quello migrante siano «mostruosi». In 
una prima fase, entrambi si presentano come aspetto di moltitudini 
ribelli: nel primo caso come rifiuto del lavoro fordista, nel secondo 
come rifiuto della condizione umana nella esclusione. Basato su questo 
rifiuto, il concetto di moltitudine ci è offerto qui come «sporco e 
rozzo» - altrettanto quanto lo era quello di classe operaia all'inizio 
dell'accumulazione primitiva. (È fuori dubbio che gli studi 
sull'immaterializzazione del lavoro vadano a questo punto corretti: e 
questa non è che una delle conseguenze dell'associazione del concetto di 
cognitariato e del concetto di migrazione in quello di moltitudine). 
Basta dunque con la pulizia dei concetti che ci hanno imposto i vari 
epigoni del socialismo reale e del marxismo analitico: qui non siamo di 
fronte agli ultimi baluardi di un'epoca passata che deve essere 
concettualmente liberata e nuovamente organizzata (sono ormai comici i 
tentativi di rinnovare il concetto di classe operaia) ma di fronte a una 
nuova realtà che va, in maniera rivoluzionaria, scoperta e che spinge 
sempre verso nuove aperture, verso una piena libertà. Ognuno dei 
concetti presentati nel libro di Mezzadra guarda avanti e non a un 
passato irrisolto e carico di sconfitte (questo non è davvero un libro 
nostalgico!).

Forse vale la pena, se vogliamo riportare tutto questo su un livello 
politico, di sottolineare due ipotesi mainstream che attraversano il 
libro. La prima è che qui ci si trova dentro a un passaggio che non 
presenta nuovi protagonisti, ma in primo luogo una serie di condizioni 
di anticipazione di realtà e di possibile dispositivo politico. Il 
movimento è tutto, davvero tutto in questa condizione, la radicalità 
della percezione della trasformazione in atto tocca il fondo dello stato 
di cose esistenti.

È per questo che il tema migrazione tocca i processi politici e 
costituzionali della cittadinanza, della democrazia, del politico, in 
maniera diretta, registrandone la crisi. «La condizione dei migranti si 
pone precisamente nel punto di incrocio di questi processi: e in fondo 
anche le discussioni filosofiche apparentemente più astratte in cui si è 
conquistato un posto di primo piano sono dominate dall'urgenza di 
riflettere su di essi». Io non so se la discussione che Mezzadra 
sviluppa, riprendendo con simpatia le posizioni di Jacques Rancière, 
corrisponda alla tensione che del problema egli rivela. Non voglio 
quindi a mia volta chiedermi se il concetto (prodotto da Rancière) di 
uomini che nella democrazia attuale e nel politico tout court sono 
«parte dei senza-parte» possa aiutarci a porre correttamente il problema 
della politica oggi; neppure so se l'intuizione di Bonnie Honig che 
insiste sul fatto che è proprio la volontà di appropriazione che i 
migranti esprimono a darci il senso della condizione politica 
postmoderna nella quale viviamo, in quanto espressione di una centralità 
politica nuova che irrompe all'interno dei sistemi. So tuttavia che la 
qualificazione di questa forza lavoro, qualora fosse staccata da 
condizioni materiali di povertà e di desiderio (come forse avviene in 
Rancière), non potrebbe riconoscersi come potenza innovatrice. Quando 
noi invece concentriamo la nostra attenzione su quella dimensione 
materiale che l'immigrazione attraversa con potenza mostruosa (d'altra 
parte lo stesso fanno i lavoratori del cognitariato) - è dunque su 
questo nesso di innovazione politica, di inquieta pressione sociale, che 
il processo di migrazione conquista materialmente il senso di essere 
parte rivoluzionaria fra i senza parte assoluti. È a questo punto che il 
«prendere», come ci dice Honig, diventa centrale: questa è la seconda 
ipotesi che nel libro corre. La riappropriazione diventa parola d'ordine 
del movimento intero.

Con questa discussione vado al di là (ma sto dentro) all'organizzazione 
del libro. I temi trattati (nella prima parte, l'emigrante e il 
controllo capitalistico, con articoli di Frank Duvell, William Walters, 
Enrica Rigo e Helmut Dietrich; nella seconda parte, il migrante e la sua 
condizione umana, e la sua esperienza di autonomia, con articoli di 
Manuela Bojadzijev, Serhat Karakayali, Vassilis Tsianos, Alessandra 
Corrado, Bridget Anderson, Nicholas De Genova, Cynthia Wright, Peter 
Nyers, Nikos Papastergiavis e Ghassan Hage) non sono temi particolari, 
propri di chi ha la faccia colorata e non ha diritti, ma sono problemi 
che tutti noi abbiamo, che ogni singolarità tocca, in questo regime 
capitalistico della globalizzazione e dell'«oltre» lo stato territoriale 
della modernità.
------------ próxima parte ------------
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